mercoledì 21 marzo 2012

Parlo sempre di corsa

Due anni fa accadeva una delle esperienze più emozionanti della mia vita. Una di quelle esperienze che sai porterai dentro fino alla fine dei tuoi giorni, che vorrai raccontare prima ai tuoi figli e poi ai tuoi nipoti, che ti lasceranno un pizzico di malinconia ma tanta adrenalina quando lo scorrere di quei ricordi si farà largo tra i meandri dei pensieri.
Lacrime e sorriso. Due facce della stessa medaglia. Stati d'animo apparentemente così distanti, ma in quegli attimi, negli ultimi 400 metri vicini come non mai. Esprimevano tutto ciò che avevo vissuto in quelle 3 ore e 49 minuti.

Lo sparo da il via a quella fiumana di gente pronta a far girare le gambe. Si comincia a camminare, qualcuno accenna qualche passo di corsa ma è ancora presto. Bisogna aspettare per cominciare a fare sul serio. Tutt'intorno si respira un'aria di festa, si sentono le urla della gente assiepata dietro le transenne, le note della banda, le mani in alto a salutare amici, parenti e sconosciuti. E' l'euforia dei centomila.
Ci allontaniamo dal palcoscenico della partenza. Al terzo chilometro il ritmo sembra farsi più intenso e la concentrazione sale. Cerco di correre in scioltezza, senza strafare, e con la mente sgombra da qualsiasi pensiero. Dare il cinque ai bambini che allungano la loro manina e vederli sorridere nel momento in cui ricambi il loro gesto sembra darmi una marcia in più. La corsa è facile, le gambe girano alla grande, guai se così non fosse al quindicesimo chilometro. Si avvicina la mezza e il cronometro segna un tempo che entusiasma ma allo stesso tempo spaventa, perché si sa che tutti i minuti di vantaggio nella prima metà si pagano a caro prezzo nella seconda parte. Io continuo su quel ritmo e spero che quella consuetudine valga per tutti meno che per me. Il Lungotevere sembra non finire mai. I chilometri aumentano e aumentano anche i dolori, piccoli dolori che vanno e vengono, e che cominciano quel lento lavoro di sfiancamento. Solo la testa è in grado di opporsi e farli momentaneamente scomparire. Si avvicina il trentaduesimo chilometro. Pensi che solo dieci chilometri ti separano dal traguardo. Ma saranno i dieci chilometri più lunghi della tua vita, quelli che la tua mente e la tua forza dovranno sostenere a livello psicologico come non mai. Perché quando il fisico comincia ad abbandonarti è la testa che deve correre e far girare le gambe.
Entrato in piazza Navona penso che i miei muscoli stiano diventando dello stesso materiale delle statue del Bernini, di marmo. Mi viene da sorridere e questo pensiero allevia per un po' il dolore. Continuo a correre. Ripeto tra me e me quelle frasi che mi fanno sentire invincibile. Mi lascio trascinare dalle due ali di folla che applaudono e incoraggiano anche i più claudicanti. Il giro in Piazza del Popolo, nella sua circolarità, sembra un giro d'onore. Non puoi camminare, bisogna correre. Ad ogni passo tutto il corpo sembra cedere, ma gli occhi della tigre sono ancora lì, indomiti, raggianti. Mancano solo quattro chilometri al sogno, quattro chilometri per coronare un'avventura, quattro chilometri per mettere al collo una medaglia che vale più di qualsiasi altra cosa in questo momento. Corri. Il Circo massimo è sulla destra, ormai le gambe vanno per inerzia. Non posso fermarmi proprio ora. Corri. La leggera salita che precede l'arrivo è l'ultimo baluardo. Corri.
Ormai non sento più nulla. Nessun dolore. Non sento nemmeno le urla di chi è al di là della transenna. Sono solo con me stesso. Sento i passi pesanti sotto di me, quasi non fossero i miei. Sento i secondi del cronometro che si rincorrono l'uno dietro l'altro. Sento la brezza amica che quasi mi spinge verso il traguardo. Sento le lacrime copiose che scendono sul mio viso e si perdono negli spigoli del mio sorriso. Lacrime di gioia, di liberazione, di euforia. Lacrime di chi ha voglia di urlare ma non ne ha la forza, di chi era lì per crederci fino alla fine, di chi avrebbe potuto perdere tutto in pochi attimi ma non ha mai perso sé stesso. Lacrime di un gladiatore che sentiva la sua armatura sempre più pesante sotto i colpi di quel leone che stava per finirlo, ma che con le sue ultime forze ha incrociato lo sguardo della belva e gli ha inferto il colpo mortale, portando a casa la pelle.
Sono passati già due anni da quel giorno e la mia voglia di ritornare in quella stessa arena mi assale. Ho voglia di vivere ancora quelle emozioni, magari stavolta diverse, nuove, forti, entusiasmanti, ma di sicuro meritevoli di essere vissute. Correre è una filosofia di vita. Roma 2013 mi attende.

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